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domenica 30 settembre 2007

Libri, siti & Co. - Mille splendidi soli






L’Afghanistan di Hosseini è un’immagine forte e terribile dalla quale l’anima non riesce a distogliere lo sguardo. Dopo “Il cacciatore di aquiloni”, con “Mille splendidi soli” (2007, 432 p., ed. Piemme) Khaled Hosseini ci racconta una storia di donne. Donne che guardano il mondo attraverso il burka.

Mariam e Laila, le protagoniste del romanzo, sono lontanissime per età, mentalità e storia personale, eppure sono uguali, condividono uno stesso destino, come mogli dello stesso uomo e ci sembra di vederle camminare, un passo dietro il marito, per le vie di Kabul, uguali, sotto il burka.

Per noi occidentali il burka è solo una costrizione irragionevole, una delle cose che non condividiamo, ma che in fondo giustifichiamo sotto l’etichetta “usi e costumi”. Ma il burka è di più, è il segno della immutabilità e della inesorabilità delle relazioni sociali e personali in un paese, come l’Afghanistan, in cui le tradizioni tribali non sono archeologia, ma realtà quotidiana. Nana, la madre di Miriam, rimane incinta in un rapporto con il padrone della casa dove presta servizio come cameriera e si rammarica che il proprio padre non abbia avuto il coraggio di ucciderla per questo, insieme alla bimba (harami, bastarda) che portava in grembo, come le tradizioni afgane imponevano. E’ significativo che questa stessa legge tribale venga riportata in un altro romanzo sull’Afghanistan “Il soldato di Alessandro” di Pressfield Steven (2006, 394 p., ed. Rizzoli), perché quel libro non è ambientato al giorno d’oggi, ma al tempo di Alessandro Magno: tra le due storie ci sono 24 secoli che in Afghanistan sembrano essere passati senza troppe conseguenze sulla condizione delle donne.


Laila, non aveva mai portato il burka, perché era stata educata da genitori “moderni”, a quindici anni rimasta orfana e sola al mondo per un bombardamento, si sposa con Rashid un tradizionalista e tutto sommato accoglie quella costrizione come uno schermo, che la difende dagli altri: ma presto si accorge che non la difende dal dolore. Non la difende dalle ondate di lacrime e sangue, che travolgono la sua vita e quella di Mariam. Il dolore delle donne in Afghanistan non dipende da un atto o da un fatto, ma da una condizione stabile, secolare, accettata. Chissà cosa pensava Mariam, mentre Rashid per farle capire che preferiva il riso cotto più a lungo, la costringeva a masticare sassi fino a sputare i denti?

Le due donne, inizialmente nemiche, troveranno a poco a poco nello stesso sentimento (l’amore per i figli di Laila) la rispettiva ragione primaria: di vita, per Laila, e di morte, per Mariam.

Una storia lacerante e travolgente, resa reale agli occhi del lettore dalla narrazione eccezionale di Hosseini, il quale scrive della sua terra natale, l’Afghanistan, dagli Stati Uniti, dopo tanti anni di lontananza e nella quale forse, proprio come Laila, sa che deve tornare, per vedere finalmente restaurati i mille muri di Kabul martoriati dalle guerre, dietro i quali si nascondono mille splendidi soli.

Un libro da leggere.

Paolo Cianfoni


Links
http://www.hosseini.it/
http://it.wikipedia.org/wiki/Khaled_Hosseini

babasteve / Steve Evans photos


pubblicato su "L'Urlo" di Ottobre 2007

domenica 16 settembre 2007

Le architetture di Ridolfi e Frankl

La bella monografia “Le architetture di Ridolfi e Frankl” di Francesco Cellini e Claudio D’Amato (Edizioni Electa) è definita dagli stessi autori come un album di disegni di architetture interpretate e commentate. In effetti è una lettura comprensibile, piacevole e stimolante anche per il profano.

Il mio interesse per le architetture di Mario Ridolfi e Wolf Frankl, abbastanza naturale per chi vive a Terni, nasce da una passeggiata fatta molti anni fa con un architetto ternano, grande conoscitore di Ridolfi. Mi ricordo ancora oggi che sono bastate quelle poche spiegazioni su alcuni edifici del centro per guardare da allora in poi con occhi diversi alcuni scorci della mia città.

Spesso ho portato come esempio questo episodio nelle lezioni di Marketing territoriale e di Marketing esperienziale per dimostrare come il valore di quello che abbiamo davanti agli occhi dipenda in gran parte dalle informazioni che ci vengono fornite intermini di contenuti, accuratezza e qualità.

Ma il valore di Ridolfi e Frankl, due architetti le cui vite meriterebbero un romanzo, va ben oltre il tanto realizzato nella città di Terni, e comprende il tanto realizzato a Roma, Ivrea e in giro per l’Italia e, soprattutto il non realizzato, cioè alcuni splendidi progetti, purtroppo, rimasti sulla carta come la Torre dei ristoranti, la stazione Termini a Roma, il motel Agip di Settebagni e il “bidone” il palazzo degli uffici previsto a Terni nella piazza ormai dedicata ai due architetti, unica opera che corre ancora il rischio di essere realizzata.

Ridolfi era un architetto che veniva spesso definito un artigiano. In effetti osservava gli artigiani lavorare e ragionava sopra i loro movimenti e la loro visione della vita. Da un vecchio muratore bravissimo nella difficile “arte” delle volte in mattoni aveva imparato che tenere il cemento in basso e prenderlo una cazzuola per volta, scendendo dalla scala senza farsi aiutare, non è una inutile fatica, ma significa sapere che il gesto di scendere e risalire scandisce il tempo per fissare il mattone nella giusta posizione. Così come studiava e ristudiava gli infissi per fare in modo che le dimensioni standard dei vetri non dovessero essere rifilate con un inutile spreco di materiale e di tempo. E’ strano: nell’architettura questo modo di pensare veniva allora definito “artigianalità” sottolineandone tutto sommato l’arretratezza, quasi come se l’architetto dovesse essere un artista astratto svincolato dal cantiere, in campo economico questa stessa impostazione rende Ridolfi un precursore del just in time e della qualità totale, con un significato di indubbia modernità.

Il passato per Ridolfi non è un mito, ma la sapienza cumulata dell’uomo. A questo forse pensava quando si estasiava di fronte a una antica casa rurale creata giorno dopo giorno dall’uso dei contadini, che nessun architetto sarebbe stato capace di progettare in quel modo, oppure quando per risolvere un problema urbanistico si ispirava ai quadri di Giotto o di Duccio di Buoninsegna. In questo senso forse anche le maioliche, che amava mettere sulle facciate sotto le finestre, sono drappi medioevali di architetture in festa che dialogano e vivono la città. Questo modo di vivere il passato non è arretratezza, ma cultura, non è artigianalità, ma modernità.


Paolo Cianfoni