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domenica 16 settembre 2007

Le architetture di Ridolfi e Frankl

La bella monografia “Le architetture di Ridolfi e Frankl” di Francesco Cellini e Claudio D’Amato (Edizioni Electa) è definita dagli stessi autori come un album di disegni di architetture interpretate e commentate. In effetti è una lettura comprensibile, piacevole e stimolante anche per il profano.

Il mio interesse per le architetture di Mario Ridolfi e Wolf Frankl, abbastanza naturale per chi vive a Terni, nasce da una passeggiata fatta molti anni fa con un architetto ternano, grande conoscitore di Ridolfi. Mi ricordo ancora oggi che sono bastate quelle poche spiegazioni su alcuni edifici del centro per guardare da allora in poi con occhi diversi alcuni scorci della mia città.

Spesso ho portato come esempio questo episodio nelle lezioni di Marketing territoriale e di Marketing esperienziale per dimostrare come il valore di quello che abbiamo davanti agli occhi dipenda in gran parte dalle informazioni che ci vengono fornite intermini di contenuti, accuratezza e qualità.

Ma il valore di Ridolfi e Frankl, due architetti le cui vite meriterebbero un romanzo, va ben oltre il tanto realizzato nella città di Terni, e comprende il tanto realizzato a Roma, Ivrea e in giro per l’Italia e, soprattutto il non realizzato, cioè alcuni splendidi progetti, purtroppo, rimasti sulla carta come la Torre dei ristoranti, la stazione Termini a Roma, il motel Agip di Settebagni e il “bidone” il palazzo degli uffici previsto a Terni nella piazza ormai dedicata ai due architetti, unica opera che corre ancora il rischio di essere realizzata.

Ridolfi era un architetto che veniva spesso definito un artigiano. In effetti osservava gli artigiani lavorare e ragionava sopra i loro movimenti e la loro visione della vita. Da un vecchio muratore bravissimo nella difficile “arte” delle volte in mattoni aveva imparato che tenere il cemento in basso e prenderlo una cazzuola per volta, scendendo dalla scala senza farsi aiutare, non è una inutile fatica, ma significa sapere che il gesto di scendere e risalire scandisce il tempo per fissare il mattone nella giusta posizione. Così come studiava e ristudiava gli infissi per fare in modo che le dimensioni standard dei vetri non dovessero essere rifilate con un inutile spreco di materiale e di tempo. E’ strano: nell’architettura questo modo di pensare veniva allora definito “artigianalità” sottolineandone tutto sommato l’arretratezza, quasi come se l’architetto dovesse essere un artista astratto svincolato dal cantiere, in campo economico questa stessa impostazione rende Ridolfi un precursore del just in time e della qualità totale, con un significato di indubbia modernità.

Il passato per Ridolfi non è un mito, ma la sapienza cumulata dell’uomo. A questo forse pensava quando si estasiava di fronte a una antica casa rurale creata giorno dopo giorno dall’uso dei contadini, che nessun architetto sarebbe stato capace di progettare in quel modo, oppure quando per risolvere un problema urbanistico si ispirava ai quadri di Giotto o di Duccio di Buoninsegna. In questo senso forse anche le maioliche, che amava mettere sulle facciate sotto le finestre, sono drappi medioevali di architetture in festa che dialogano e vivono la città. Questo modo di vivere il passato non è arretratezza, ma cultura, non è artigianalità, ma modernità.


Paolo Cianfoni

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie per aver ampliato un poco le mie conoscenze, romanticone...
Maurizio