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domenica 25 novembre 2007

L&S 9 - Maruzza Musumeci - A. Camilleri




“Maruzza Musumeci” l’ultimo romanzo di Andrea Camilleri (2007, p. 151, Sellerio) è una storia che lascia piacevolmente perplessi, perché è fuori da ogni schema.

Leggendo il romanzo con il cervello l’intreccio sembra disperdersi incoerentemente in tante direzioni incompiute, ma “Maruzza Musumeci” è una favola e va letta con il cuore.

Gli elementi del romanzo non sono i fatti, ma sono i sentimenti di Gnazio Manisco resi talmente vivi dalla maestria di Camilleri che si confondono con i sentimenti stessi del lettore.

La repulsione per il mare, la paura delle storie sulle sirene, la speranza di trovare una moglie, l’innamoramento travolgente per Maruzza, l’intima accettazione delle sue “stranezze”, fino all’amore per i figli e al desiderio di darle un bacio prima di morire descrivono un intreccio di sentimenti molto più avvincente dello svolgimento degli accadimenti che li generano.

Il fatto è che Maruzza è una sirena.

Gnazio lo sapeva prima di sposarla che Maruzza un giorno ogni quattro mesi, al cambio di stagione, credeva di diventare sirena e doveva stare tutto il giorno immersa nell’acqua di mare, ma era così rapito dalla sua bellezza che era disposto a tutto per lei.

Sirena lei, sirena Minica sua catananna (bisnonna) e sirena Resina figlia sua e di Gnazio.

La lingua siciliana in cui è scritto il romanzo rende la lettura ostica solo all’apparenza, anzi è così musicale e consona alla delicatezza della storia che il lettore perderebbe molto del colore del libro se non leggesse a sé stesso ad alta voce almeno alcuni passi.

Gnazio era stato sempre un contadino, così legato alla terra da saperne valutare la fertilità dal sapore, Maruzza era figlia del mare e passava le giornate a cantare melodie dolcissime dal balcone dell’unica finestra esposta nella direzione della spiaggia e Cola, il primo dei loro figli, era così innamorato delle stelle del cielo da passare le notti sul tetto.

E’ così che tra terra, mare e cielo si snoda questa favola dolce e amara, delicata e forte, strana e consueta proprio come è la Sicilia di Camilleri.


Paolo Cianfoni

http://www.andreacamilleri.net/
http://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Camilleri

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pubblicato su "L'Urlo" di Dicembre 2007

venerdì 23 novembre 2007

Libri, siti & Co. 8 - L'ultima legione - V.M. Manfredi



Il film “The last legion” di Doug Lefler ha concluso la programmazione nelle sale senza eccessiva fortuna al box office. Forse il voler raggiungere simultaneamente le categorie del film d’azione americano, del film storico e del fantasy ha finito per nuocere al carattere complessivo dell’opera. Eppure è una bella storia.

Una storia tratta dal romanzo “L’ultima legione” (2002, p. 472, Mondadori) di Valerio Massimo Manfredi, l’archeologo, scrittore e conduttore televisivo (Stargate – La7).

Manfredi è uno scrittore prolifico e un grande affabulatore: i suoi romanzi storici sono scritti con un piacevolissimo stile scorrevole e coinvolgente e affascinano da anni schiere di affezionati lettori, le sue trasmissioni chiare e interessanti dimostrano grande capacità di divulgazione e non comuni doti interpretative.

Ne “L’ultima legione” Manfredi tenta una operazione intellettualmente affascinante, quella di gettare un ponte tra la cultura della Roma antica e la tradizione arturiana.

In questo senso immagina che l’ultimo imperatore romano, il tredicenne Romolo Augusto, invece di morire nel Castrum Lucullanum a Capri (l’odierno Castel dell’Ovo), venga liberato da un pugno di reduci della legione Nova Invicta e con essi inizi un viaggio fino al Vallo di Adriano in Britannia alla ricerca dell’ultima legione la dodicesima Drago.


Non è difficile immaginare che i resti o addirittura il solo ricordo delle legioni, da sempre depositarie dei valori di conquista e di civiltà, essenza stessa della romanità, avessero acquisito nel secolo del disfacimento dell’impero ad opera dei barbari una considerazione quasi mistica nell’immaginario popolare.

Quello strano gruppo di persone composto da un imperatore bambino, dal suo precettore il druido Meridius Ambrosinus (che nel film ha il volto di Ben Kingsley), dai legionari Aurelio, Vatreno e Batiato e dalla donna-guerriero Livia Prisca, in fuga verso la Britannia, braccati dai barbari di Odoacre, costituisce il mezzo della fecondazione del mondo anglosassone con i valori romani.

Il simbolo di questa continuità è la spada di Giulio Cesare, che Romolo ritrova nel castello di Capri e porta con sé in Britannia, la getterà via dopo la sanguinosa vittoria sui barbari, per segnare la fine della guerra. Quella spada si conficcherà nella roccia e della sua iscrizione incisa sulla lama “Cai. Iul. Caes. Ensis Caliburnus” (Spada calibica di Giulio Cesare) rimarranno leggibili solo alcune lettere “E S CALIBUR”, mentre Meridius Ambrosinus sarà ricordato come Merlinus.

La trama del libro ha un impianto epico-fantasioso, ma le critiche che sanzionano un epilogo della storia del tutto incoerente con lo sviluppo del romanzo sono ingenerose e semplicistiche.

Esse non colgono né le recenti scoperte storiche che collocano gli eventi della tavola rotonda proprio in quegli anni di fine dell’impero romano e di inizio del medioevo e non alcuni secoli dopo, come si era sempre pensato, né il messaggio di sostanziale unità e omogeneità della cultura europea che Manfredi propone.

L’intreccio di un romanzo infatti non è buono se è consueto, ma è buono se riesce a farci pensare.

Paolo Cianfoni

Links
http://it.wikipedia.org/wiki/Valerio_Massimo_Manfredi

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lunedì 5 novembre 2007

Libri, siti & Co. - La strada



Il premio Pulitzer 2007 è stato assegnato a “La strada” di Cormac McCarthy (2007, pg. 218, ed. Einaudi).

McCarthy catapulta il lettore alla fine del mondo, dove gli alberi e le foglie non sono “secchi”, ma “morti” e dove un padre e un figlio camminano tra la cenere di quel che resta del nostro pianeta. L’apocalisse è avvenuta qualche anno prima, ma McCarthy non ci spiega né il perché né il come il mondo si sia ridotto così, perché in fondo non ce n’è bisogno: è avvenuto e basta.


L’atmosfera in cui è immerso tutto il romanzo è naturalmente opprimente, ostile, lontanissima dal “nostro” mondo fatto di comodità e piccole gioie materiali, ma non è affatto irreale. Anzi è assolutamente ragionevole supporre che dopo la catastrofe (nucleare, ambientale, o chi lo sa ..) una volta finite le scorte di cibo, nelle nostre civilissime terre il furto, l’assassinio e il cannibalismo diventi pratica comune e che quest’ultimo si indirizzi in primo luogo verso i bambini sopravvissuti.

A captare l’attenzione del lettore non sono le situazioni raccapriccianti, che certamente non mancano, ma il rapporto padre – figlio. Quel rapporto è un mondo fatto di amore completamente immerso in un mondo terrificante.

E’ per questo che il padre ha il rimorso di aver parlato al figlio del mondo che è stato e cerca di non ricordagli mai sua madre, perché per suo figlio quelle cose possono solo farlo soffrire e non lo aiuteranno mai nella vita che deve affrontare.

Nel mondo che conosciamo pensare all’educazione e al futuro del proprio figlio significa preoccuparsi di mandarlo in buone scuole e svolgere al meglio il proprio compito di genitore con l’esempio di una vita “perbene” ispirata a valori di civiltà.

Nel mondo descritto da McCarthy, (un mondo allo stesso tempo lontanissimo e a un passo da noi), l’esempio che il padre è costretto a dare al figlio è quello di essere sempre pronto a uccidere chiunque si avvicini a lui e di non poter aiutare nessuno, adulto o bambino.

Il significato della parola “futuro” in mondo così è ben descritta dal fatto che quando il padre è costretto ad allontanarsi anche di pochi passi da suo figlio, non porta con sé la pistola, ma la lascia sempre al bambino, sperando che il figlio la usi per uccidersi in caso di pericolo.

Eppure McCarthy a poco a poco ci fa capire che proprio in mondo così, dove niente ha significato, l’unica cosa in cui credere sono proprio i valori di civiltà: nei dialoghi tra padre e figlio, fatti di frasi secche e terribili nella loro semplicità, il mondo è diviso in “buoni” e “cattivi”.
I “buoni” sono quelli come loro, che “non mangiano i bambini”. Questa divisione tra buoni e cattivi non ha niente di inadeguato o di infantile, sono concetti essenziali, che hanno la forza della più complessa filosofia che possiamo immaginare.

Un genitore normale nel nostro mondo può tranquillamente concepire di dare la propria vita per salvare quella di suo figlio, nel mondo del romanzo può tranquillamente concepire di uccidere il proprio figlio per non farlo sopravvivere a sé stesso. In quel mondo il più grande atto di fiducia nel futuro dell’uomo, che può fare un padre è quello di permettersi di morire lasciando solo suo figlio.

Un libro geniale, che sembra occuparsi di un mondo ipotetico, mentre invece parla solo e sempre di noi.

Paolo Cianfoni


Links
http://www.cormacmccarthy.com/
http://it.wikipedia.org/wiki/Cormac_McCarthy

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pubblicato su "L'Urlo" di Novembre 2007

domenica 30 settembre 2007

Libri, siti & Co. - Mille splendidi soli






L’Afghanistan di Hosseini è un’immagine forte e terribile dalla quale l’anima non riesce a distogliere lo sguardo. Dopo “Il cacciatore di aquiloni”, con “Mille splendidi soli” (2007, 432 p., ed. Piemme) Khaled Hosseini ci racconta una storia di donne. Donne che guardano il mondo attraverso il burka.

Mariam e Laila, le protagoniste del romanzo, sono lontanissime per età, mentalità e storia personale, eppure sono uguali, condividono uno stesso destino, come mogli dello stesso uomo e ci sembra di vederle camminare, un passo dietro il marito, per le vie di Kabul, uguali, sotto il burka.

Per noi occidentali il burka è solo una costrizione irragionevole, una delle cose che non condividiamo, ma che in fondo giustifichiamo sotto l’etichetta “usi e costumi”. Ma il burka è di più, è il segno della immutabilità e della inesorabilità delle relazioni sociali e personali in un paese, come l’Afghanistan, in cui le tradizioni tribali non sono archeologia, ma realtà quotidiana. Nana, la madre di Miriam, rimane incinta in un rapporto con il padrone della casa dove presta servizio come cameriera e si rammarica che il proprio padre non abbia avuto il coraggio di ucciderla per questo, insieme alla bimba (harami, bastarda) che portava in grembo, come le tradizioni afgane imponevano. E’ significativo che questa stessa legge tribale venga riportata in un altro romanzo sull’Afghanistan “Il soldato di Alessandro” di Pressfield Steven (2006, 394 p., ed. Rizzoli), perché quel libro non è ambientato al giorno d’oggi, ma al tempo di Alessandro Magno: tra le due storie ci sono 24 secoli che in Afghanistan sembrano essere passati senza troppe conseguenze sulla condizione delle donne.


Laila, non aveva mai portato il burka, perché era stata educata da genitori “moderni”, a quindici anni rimasta orfana e sola al mondo per un bombardamento, si sposa con Rashid un tradizionalista e tutto sommato accoglie quella costrizione come uno schermo, che la difende dagli altri: ma presto si accorge che non la difende dal dolore. Non la difende dalle ondate di lacrime e sangue, che travolgono la sua vita e quella di Mariam. Il dolore delle donne in Afghanistan non dipende da un atto o da un fatto, ma da una condizione stabile, secolare, accettata. Chissà cosa pensava Mariam, mentre Rashid per farle capire che preferiva il riso cotto più a lungo, la costringeva a masticare sassi fino a sputare i denti?

Le due donne, inizialmente nemiche, troveranno a poco a poco nello stesso sentimento (l’amore per i figli di Laila) la rispettiva ragione primaria: di vita, per Laila, e di morte, per Mariam.

Una storia lacerante e travolgente, resa reale agli occhi del lettore dalla narrazione eccezionale di Hosseini, il quale scrive della sua terra natale, l’Afghanistan, dagli Stati Uniti, dopo tanti anni di lontananza e nella quale forse, proprio come Laila, sa che deve tornare, per vedere finalmente restaurati i mille muri di Kabul martoriati dalle guerre, dietro i quali si nascondono mille splendidi soli.

Un libro da leggere.

Paolo Cianfoni


Links
http://www.hosseini.it/
http://it.wikipedia.org/wiki/Khaled_Hosseini

babasteve / Steve Evans photos


pubblicato su "L'Urlo" di Ottobre 2007

domenica 16 settembre 2007

Le architetture di Ridolfi e Frankl

La bella monografia “Le architetture di Ridolfi e Frankl” di Francesco Cellini e Claudio D’Amato (Edizioni Electa) è definita dagli stessi autori come un album di disegni di architetture interpretate e commentate. In effetti è una lettura comprensibile, piacevole e stimolante anche per il profano.

Il mio interesse per le architetture di Mario Ridolfi e Wolf Frankl, abbastanza naturale per chi vive a Terni, nasce da una passeggiata fatta molti anni fa con un architetto ternano, grande conoscitore di Ridolfi. Mi ricordo ancora oggi che sono bastate quelle poche spiegazioni su alcuni edifici del centro per guardare da allora in poi con occhi diversi alcuni scorci della mia città.

Spesso ho portato come esempio questo episodio nelle lezioni di Marketing territoriale e di Marketing esperienziale per dimostrare come il valore di quello che abbiamo davanti agli occhi dipenda in gran parte dalle informazioni che ci vengono fornite intermini di contenuti, accuratezza e qualità.

Ma il valore di Ridolfi e Frankl, due architetti le cui vite meriterebbero un romanzo, va ben oltre il tanto realizzato nella città di Terni, e comprende il tanto realizzato a Roma, Ivrea e in giro per l’Italia e, soprattutto il non realizzato, cioè alcuni splendidi progetti, purtroppo, rimasti sulla carta come la Torre dei ristoranti, la stazione Termini a Roma, il motel Agip di Settebagni e il “bidone” il palazzo degli uffici previsto a Terni nella piazza ormai dedicata ai due architetti, unica opera che corre ancora il rischio di essere realizzata.

Ridolfi era un architetto che veniva spesso definito un artigiano. In effetti osservava gli artigiani lavorare e ragionava sopra i loro movimenti e la loro visione della vita. Da un vecchio muratore bravissimo nella difficile “arte” delle volte in mattoni aveva imparato che tenere il cemento in basso e prenderlo una cazzuola per volta, scendendo dalla scala senza farsi aiutare, non è una inutile fatica, ma significa sapere che il gesto di scendere e risalire scandisce il tempo per fissare il mattone nella giusta posizione. Così come studiava e ristudiava gli infissi per fare in modo che le dimensioni standard dei vetri non dovessero essere rifilate con un inutile spreco di materiale e di tempo. E’ strano: nell’architettura questo modo di pensare veniva allora definito “artigianalità” sottolineandone tutto sommato l’arretratezza, quasi come se l’architetto dovesse essere un artista astratto svincolato dal cantiere, in campo economico questa stessa impostazione rende Ridolfi un precursore del just in time e della qualità totale, con un significato di indubbia modernità.

Il passato per Ridolfi non è un mito, ma la sapienza cumulata dell’uomo. A questo forse pensava quando si estasiava di fronte a una antica casa rurale creata giorno dopo giorno dall’uso dei contadini, che nessun architetto sarebbe stato capace di progettare in quel modo, oppure quando per risolvere un problema urbanistico si ispirava ai quadri di Giotto o di Duccio di Buoninsegna. In questo senso forse anche le maioliche, che amava mettere sulle facciate sotto le finestre, sono drappi medioevali di architetture in festa che dialogano e vivono la città. Questo modo di vivere il passato non è arretratezza, ma cultura, non è artigianalità, ma modernità.


Paolo Cianfoni

martedì 21 agosto 2007

Libri, siti & co. - Scusa ma ti chiamo amore



Scusa ma ti chiamo amore”, il terzo romanzo di Federico Moccia, ha avuto un’accoglienza molto diversa dai lettori, perché si presta ad essere amato o odiato senza mezze misure. Chi apprezza i consueti pregi di Moccia (le atmosfere di strana complicità dei protagonisti e la scorrevolezza della storia) amerà anche questa opera.
Altrimenti sarà odio.

Certo è che Moccia per la terza volta parla della stessa generazione: la sua.

La favola della diciassettenne Niki e di Alex di quasi venti anni più vecchio di lei è adorata dagli adolescenti, ma appare molto più come la storia di Alex, che quella di Niki.

Perché il romanzo più che spiegare il mondo giovanile della Roma delle feste rave, si addentra nelle nevrosi degli uomini trenta – quarantenni di oggi. Se Alex, il protagonista, fosse chiamato a fare un bilancio della sua vita parlerebbe del suo lavoro, del difficile rapporto con la propria compagna, forse accennerebbe alla gelosia, si indignerebbe per il tradimento intrecciato con questioni di ufficio, confesserebbe il sogno dei suoi amici e, in fondo anche suo, di fuggire dalla noia delle proprie responsabilità, grazie a una storia di sesso con una liceale. Descriverebbe in questo modo una vita talmente ordinaria, da essere reale, nella quale tanti possono riconoscersi.

Certo lui parlerebbe anche e soprattutto di Niki, la ragazza allegra, fragile e forte, che si è scontrata con la sua vita, dandogli il coraggio di fare alcune scelte. Una storia d’amore di oggi che nasce tra i gelsomini di una terrazza romana e aspira all’eternità in un faro dell’isola del Giglio


Ma quanti lettori del romanzo scommetterebbero sulla durata di una storia così? Un rapporto dove lei si scusa di chiamarlo amore e lui rimane colpito dall'essere chiamato in questo modo?

In effetti il lettore mentre scorre le pagine darà inconsciamente per scontato l’amore di Niki per Alex, ma si chiederà almeno una volta se Alex ama davvero Niki.

Il lavoro di Alex, che è creativo in una agenzia di pubblicità, occupa molto spazio nel romanzo, ma è reso in modo fumettistico, mentre le atmosfere "Fast and furious" all'italiana abbastanza presenti nei primi due romanzi, qui sono quasi del tutto svanite.

Lo schema dei romanzi di Moccia è abbastanza semplice e collaudato, una storia d'amore, che rompe una vita ordinaria, dove la prova dell’autenticità del sentimento si esterna in gesti e simboli sociali, che vogliono essere unici ed eccezionali: come avere il coraggio di scrivere il proprio amore sui muri o di andare a conoscere la madre della tua nuova ragazza di venti anni più giovane di te. Gesti che, a pensarci bene, non sono poi così eccezionali.

Ma l'amore è davvero soltanto una ordinaria straordinarietà?

Paolo Cianfoni

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pubblicato su "L'Urlo" di Settembre 2007

domenica 27 maggio 2007

Libri, siti & Co. - "La cattedrale del mare"

“La cattedrale del mare” in questo momento è tra i libri più letti anche in Italia. L’avvocato spagnolo Ildefonso Falcones, inizia così la sua carriera di scrittore con un bel libro, complessivamente avvincente, anche se con qualche caduta di ritmo.

Il romanzo è un ampio affresco del medioevo catalano attraverso le vicende e i sentimenti di Arnau Estanyol un servo della gleba che, appena nato, tra le braccia amorevoli del padre Bernat, fugge verso Barcellona, faro di libertà e speranza di una vita migliore, città nella quale percorrerà tutti i gradini della scala sociale.

Il lettore si scopre subito coinvolto nell’impeto di rivolta dell’animo di Bernat contro l’ingiustizia sancita dalle usanze e dai privilegi feudali (il signore locale violenta la moglie il giorno delle nozze invocando lo ius primae noctis) e partecipa all’anelito di libertà per sé e soprattutto per suo figlio.

Il piccolo Arnau per questo sarà privato per sempre dell’affetto di sua madre e la sostituirà nel suo cuore con la figura della Vergine Maria, in onore della quale il popolo di Barcellona sta costruendo una magnifica chiesa.

Solo tra quelle mura alte e sottili, che si protendono progressivamente verso il cielo, Arnau si sentirà a casa.

I bastaixos erano gli operai che portavano sulle spalle le merci incluse le grandi e pesanti pietre usate per costruire, Arnau diventa bastaix fin da bambino, il lavoro più duro e più umile che a Barcellona veniva fatto dagli uomini liberi e per tutta la vita si sentirà uno di loro, anche quando sarà banchiere e nobile.

Poco importa se l’intreccio è a tratti prevedibile e la figura del padre esce di scena in modo incoerente con la sua vita consacrata al figlio (diventa un rivoltoso e viene giustiziato), il libro di Falcones riesce mirabilmente a descrivere quel brodo primordiale di valori (libertà, famiglia, giustizia, operosità e cristianesimo) che si crea alla fine del medioevo, dal quale nasce la cultura europea.

E lo fa con il calore del romanziere attraverso le passioni, gli amori fisici, l’odio, gli errori e i rimpianti di un solo uomo.

L’animo di Arnau vibra di fronte alle tante donne positive e negative della sua vita: la perfida cugina Margarida, la baronessa Isabel, la prima moglie devota Maria, l’amante Aledis dai grandi occhi castani, la seconda moglie nobile Elionor e, infine, Mar, il suo grande amore impossibile.

Certamente questa vita tanto eccezionale quanto inverosimile, così dominata dai sentimenti, nella quale quasi tutti i personaggi prima o poi ritornano, sembra adatta a un feuilleton ottocentesco, ma il libro è ugualmente godibile e stimolante e nemmeno l’evidente svista dell’autore, che fa comparire le patate in un mondo che non le aveva ancora scoperte, rompe l’incanto di un tempio della cristianità fatto con il sudore e il sangue dei bastaixos, per il quale il suo architetto non voleva usare altri ornamenti se non lo spazio e la luce: Santa Maria del Mare di Barcellona è esattamente così.


Paolo Cianfoni



pubblicato su "L'Urlo" di maggio 2007
foto di Xavier Caballé

sabato 26 maggio 2007

"La cacciata di Cristo" Rosa Alberoni

Con un libro agile di sole 212 pagine "La cacciata di Cristo" Rosa Alberoni riesce in una impresa divulgativa veramente apprezzabile, quella di rendere con parole semplici il filo rosso (rosso di sangue), che passa nella storia della filosofia attraverso illuminismo, marxismo e nazismo.

Tre correnti di pensiero che sono riuscite ad addormentare la coscienza dell'uomo per realizzare tre immani olocausti, tre impostazioni filosofiche nelle quali l'ottima autrice vede lo stesso intento e lo stesso schema di azione, estirpare dall'uomo la sua naturale tendenza al divino, con una lotta totale, in definitiva, soprattutto al Cristianesimo.

Il Cristianesimo concepisce che dentro l'uomo c'é sia il bene che il male ed è per questo che Dio ha donato all'uomo il libero arbitrio, un dono che anche Lui rispetta, e ha indicato all'uomo la strada giusta con l'esempio del Cristo. In questo senso il nemico delle teorie del male non sono le religioni che prevedono regole, ma il Cristianesimo che è religione di Libertà, basato sulla coscienza dell'uomo, che è l'essenza stessa della cultura dell'Occidente.

Per me che non ero mai riuscito a finire "Mein kampf" una vera manna, perché mi ha dato una chiave per capire.

PC

Roby Ferrari's photostream

mercoledì 23 maggio 2007

Libri, siti & Co. - "Ho voglia di te"

“Tre metri sopra il cielo” il primo romanzo di Federico Moccia è del 1992 ed è diventato un film nel 2004. E’ la storia di Step (Stefano) un ragazzo di Roma tutto moto, risse e miti adolescenziali, che, sotto la scorza del duro, ama Babi la “perfettina” dei Parioli e crede che l’amore sia eterno.

Nel secondo romanzo (2006) e film (marzo 2007) “Ho voglia di te” Step scopre che l’amore non è eterno, ma che si può trovare un altro e più grande amore (Gin - Ginevra) e credere ancora nell’amore eterno.



Il simbolo dell’aspirazione all'eternità dell’amore è il gesto (che oggi è già un rito nei giovani romani) di fissare una catena al lampione centrale di Ponte Milvio, chiudere il lucchetto e gettare le chiavi nelle acque del Tevere pronunciando semplicemente le parole “Per sempre”.

Nel libro molto godibili sono le atmosfere di strana complicità che si creano tra Step e Gin e il modo in cui Moccia rende con le parole i sentimenti soprattutto nella parte finale.

L’intreccio mette un po’ troppa carne al fuoco: il difficile rapporto di Step con sua madre, che muore appena si ritrovano, un tentativo di violenza su Gin in perfetto stile “Vallettopoli” sventato dai pugni di Step, i preparativi per il matrimonio di Babi, la sorella di Babi che è incinta e non sa di chi, il padre che tradisce e viene scoperto, Step che tradisce Gin con Babi, c’è perfino un accenno di musical in trattoria … per un libro che parla di sentimenti questo implica una qualche superficialità.

Il romanzi sono ambientati negli anni ottanta quando anche l’autore aveva venti anni e frequentava i luoghi della zona Parioli.

Ma più delle date sono i gusti e i miti del mondo giovanile a collocare in quegli anni la storia di Step, Babi e Gin: le impennate (pinne) in moto, la boxe, l’assenza di riferimenti politici, l’amore facile con una hostess come simbolo di successo.

Gusti e miti che possono forse descrivere anche il mondo giovanile di oggi, ma che danno alla figura di Step un alone démodé, che lo fa apparire perfetto nel suo ruolo di principe azzurro dei nostri tempi.

Un principe che scrive sui muri “Ho voglia di te” e, insieme a Gin, combatte una battaglia contro la paura che l’amore invecchi, contro l’incomunicabilità e l’ipocrisia delle coppie mature.

Vale la pena leggere “Ho voglia di te” perché è un romanzo di grande popolarità, perché è riuscito ad emozionare tanti lettori, non solo adolescenti e perché non è mai inutile interrogarsi sull’amore.

Poi, magari, passando da “Ho voglia di te” qualche giovane lettore che non le ha ancora incontrate potrebbe imbattersi nelle poesie di Nazim Hikmet o di Pablo Neruda e approfondire il suo viaggio nei sentimenti.

Paolo Cianfoni
pubblicato su "L'Urlo" di Aprile 2007
foto renaissancechambara Ged Carroll

sabato 19 maggio 2007

Considerazioni sui libri di Dan Brown

I libri di Brown sono prodotti editoriali molto ben studiati sotto il profilo dei gusti del grande pubblico e, infatti, hanno un successo enorme. I contenuti naturalmente sono, come li definisce a ragione Angelo Crespi su Il Domenicale "panzane", però, a mio avviso, hanno un aspetto positivo.
Anni fa si era diffusa la cosiddetta new age, i giovani, trascinati dall'esempio dei divi di Hollywood aderivano alla moda delle religioni orientali, adottandone superficialmente simboli e costumi. Poi questa moda si è progressivamente spostata sul piano più generale, non strettamente religioso (oggi Angelina Jolie fa moda tantuandosi sulla schiena scritte in lingua khmer).
I contenuti dei libri di Brown sono una specie di new age, altrettanto superficiale, ma che si alimenta di simboli e miti della cultura occidentale. Certo possono avere i medesimi intenti di indebolire la nostra cultura, ma scherzare con i valori potrebbe comunque stimolare in molti lettori la voglia di approfondire e di confrontarsi con la nostra identità. Panzane sì, ma di casa nostra.

Non sono in grado, da semplice lettore quale sono, di valutare se tali opere debbano essere considerate, come scrive Rosa Alberoni ne "La cacciata di Cristo", "infami opere di propaganda" anticristiana "paragonabili solo" a quelle "che hanno preparato l'avvento del nazismo". Certo é che se si leggono quei romanzi credendo a quanto la prefazione vuole dare a intendere, e cioè, che le tesi sostenute siano vere, sarebbero un altro colpo alle basi della cultura occidentale.

Posso solo portare la mia personale esperienza di lettore: nel mio caso mi hanno spinto ad approfondire con altri testi quanto c'é di storico (quasi niente) e quanto di fantasia (quasi tutto) e ho "scoperto" una fase della storia del cristianesimo dove una giovane Chiesa, fatta di carne e sangue, iniziava il suo cammino di istituzione, interrogandosi essa stessa di fronte agli insegnamenti di Cristo. Ci può essere del buono nascosto in ogni cosa.

PC

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Libri, siti & Co. - "Angeli e demoni"


Potrebbe essere la top model brasiliana Gisele Bundchen ad impersonare Vittoria Vetra, l’affascinante fisica e biologa, nel film tratto da “Angeli e demoni”, che dovrebbe arrivare sugli schermi nel 2008.

E’ in questo romanzo scritto da Dan Brown nel 1999 e quindi due anni prima del “Codice”, che appare per la prima volta il personaggio di Robert Langdon, professore di Simbologia all’
Università di Harvard.
Se sullo schermo Langdon ha il volto di Tom Hanks, nei romanzi è impossibile non notare la somiglianza con lo stesso autore, Dan Brown: hanno frequentato la stessa scuola, stesso stile nel vestire e la medesima fossetta a solcargli verticalmente il mento. Anche il nome gli deriva da un personaggio reale, John Langdon, professore alla Drexel University, ideatore di ambigrammi, cioè le scritte che si possono leggere sia da sinistra verso destra sia all’inverso e che nella finzione di “Angeli e Demoni” sono il marchio che la setta degli Illuminati lascia sulla pelle delle loro vittime.

Robert Langdon è un bel personaggio: dalla penna di Brown ne è uscito con il fascino di Indiana Jones e le risorse di James Bond, anche se con le donne è più imbranato di Charlie Brown.

Della sua vita privata non si sa quasi niente, è presumibilmente single, soffre di claustrofobia a causa di una brutta esperienza infantile e come orologio ha il vezzo di portare soltanto un vecchio modello per bambini, con Mickey mouse nel quadrante.

Rispetto agli altri personaggi dei libri di Brown è il più “vero”, forse perché si comportano tutti in modo eccessivamente statunitense e Langdon è praticamente l’unico ad esserlo davvero.

Angeli e demoni è un thriller ancora più di azione rispetto al Codice da Vinci e quindi ancora più adatto per una versione cinematografica. Certo le esagerazioni della trama stridono molto per noi italiani, perché il romanzo è ambientato nel Vaticano durante il Conclave, dove si muove con naturalezza un cardinale assassino e paracadutista, mentre Langdon riesce a uscire senza un graffio dopo una caduta dall’elicottero, senza paracadute, nelle acque del Tevere.

Il film é un successo annunciato, così come lo è “The Solomon key” il romanzo che Brown sta scrivendo e che vedrà Langdon questa volta a Washington alle prese con la massoneria. Un libro e un film che attendiamo in molti.

Paolo Cianfoni





pubblicato su "L'Urlo" Marzo 2007

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Libri, siti & Co. - "Il Codice da Vinci"

Occuparsi di lettura con lo spirito giovane e frizzante de “L’urlo” è una bella sfida. Una recente indagine ha “scoperto” che più della metà degli italiani non legge (ce lo immaginavamo), ma una buona fetta di questa metà non legge per scelta! Pensa infatti che il “lettore” sia un tipo noioso, anaffettivo, presuntuoso e pieno di dubbi (becchiamoci questa!).

No, no… Noi lettori non siamo così! Però, a pensarci bene, le pagine culturali dei quotidiani spesso fanno l’effetto “arte contemporanea”, dove un taglio sulla tela non è un taglio-sulla-tela, ma è la poetica dello spazio, dove perfino la goliardata di Piero Manzoni, la famosa opera “Merda d’artista” non è la presa in giro del mercato dell’arte, ma nasconde chissà quali significati trascendenti e assoluti. In effetti le pagine culturali spesso sono talmente culturali da essere incomprensibili, noiose e inutilmente complicate.



Per riscattarci ci sforzeremo di parlare di libri (e anche di internet e di giornali) con chiarezza e semplicità. Interessandoci un po’ di tutto, senza essere schizzinosi, con lo spirito leggero di chi legge una rivista mentre beve un caffè.

Partiamo forte allora, con il successo mondiale di Dan Brown, quel “Codice da Vinci” che qualche anno fa con ingredienti semplici (una setta, un assassino, una grande figura storica, una istituzione secolare - la chiesa cattolica e una presunta verità che sarebbe stata per secoli sotto gli occhi tutti) ha venduto 17 milioni di copie.

La critica lo ha demolito (e avrà le sue buone ragioni), ma oggi a qualche anno di distanza forse si può fare un discorso più pacato. Il primo aggettivo che mi viene in mente è moderno. I libri di Brown sono moderni nel linguaggio e nell’intreccio. Sembrano copioni cinematografici, l’azione è essenziale. Brown riesce a dare la sensazione dello svolgersi simultaneo degli eventi. Un po’ come quando lavori al computer e tieni aperte più finestre nella “barra delle applicazioni di windows”: salti da una all’altra avendo la sensazione di fare più cose simultaneamente (multitasking). Allo stesso modo Brown salta da un capitolo all’altro e fa avanzare situazioni diverse e lontane verso un atteso ricongiungimento. Cosicché il lettore è incollato al libro e un capitolo tira l’altro. Non sono tanti i libri che fanno lo stesso effetto, anche tra quelli ben più solidi e apprezzati dalla critica.

Nel prossimo numero de “L’urlo” riprenderemo questo viaggio nei libri di Dan Brown.
Paolo Cianfoni








pubblicato su "L'Urlo" di Febbraio 2007

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