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domenica 25 novembre 2007

L&S 9 - Maruzza Musumeci - A. Camilleri




“Maruzza Musumeci” l’ultimo romanzo di Andrea Camilleri (2007, p. 151, Sellerio) è una storia che lascia piacevolmente perplessi, perché è fuori da ogni schema.

Leggendo il romanzo con il cervello l’intreccio sembra disperdersi incoerentemente in tante direzioni incompiute, ma “Maruzza Musumeci” è una favola e va letta con il cuore.

Gli elementi del romanzo non sono i fatti, ma sono i sentimenti di Gnazio Manisco resi talmente vivi dalla maestria di Camilleri che si confondono con i sentimenti stessi del lettore.

La repulsione per il mare, la paura delle storie sulle sirene, la speranza di trovare una moglie, l’innamoramento travolgente per Maruzza, l’intima accettazione delle sue “stranezze”, fino all’amore per i figli e al desiderio di darle un bacio prima di morire descrivono un intreccio di sentimenti molto più avvincente dello svolgimento degli accadimenti che li generano.

Il fatto è che Maruzza è una sirena.

Gnazio lo sapeva prima di sposarla che Maruzza un giorno ogni quattro mesi, al cambio di stagione, credeva di diventare sirena e doveva stare tutto il giorno immersa nell’acqua di mare, ma era così rapito dalla sua bellezza che era disposto a tutto per lei.

Sirena lei, sirena Minica sua catananna (bisnonna) e sirena Resina figlia sua e di Gnazio.

La lingua siciliana in cui è scritto il romanzo rende la lettura ostica solo all’apparenza, anzi è così musicale e consona alla delicatezza della storia che il lettore perderebbe molto del colore del libro se non leggesse a sé stesso ad alta voce almeno alcuni passi.

Gnazio era stato sempre un contadino, così legato alla terra da saperne valutare la fertilità dal sapore, Maruzza era figlia del mare e passava le giornate a cantare melodie dolcissime dal balcone dell’unica finestra esposta nella direzione della spiaggia e Cola, il primo dei loro figli, era così innamorato delle stelle del cielo da passare le notti sul tetto.

E’ così che tra terra, mare e cielo si snoda questa favola dolce e amara, delicata e forte, strana e consueta proprio come è la Sicilia di Camilleri.


Paolo Cianfoni

http://www.andreacamilleri.net/
http://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Camilleri

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pubblicato su "L'Urlo" di Dicembre 2007

venerdì 23 novembre 2007

Libri, siti & Co. 8 - L'ultima legione - V.M. Manfredi



Il film “The last legion” di Doug Lefler ha concluso la programmazione nelle sale senza eccessiva fortuna al box office. Forse il voler raggiungere simultaneamente le categorie del film d’azione americano, del film storico e del fantasy ha finito per nuocere al carattere complessivo dell’opera. Eppure è una bella storia.

Una storia tratta dal romanzo “L’ultima legione” (2002, p. 472, Mondadori) di Valerio Massimo Manfredi, l’archeologo, scrittore e conduttore televisivo (Stargate – La7).

Manfredi è uno scrittore prolifico e un grande affabulatore: i suoi romanzi storici sono scritti con un piacevolissimo stile scorrevole e coinvolgente e affascinano da anni schiere di affezionati lettori, le sue trasmissioni chiare e interessanti dimostrano grande capacità di divulgazione e non comuni doti interpretative.

Ne “L’ultima legione” Manfredi tenta una operazione intellettualmente affascinante, quella di gettare un ponte tra la cultura della Roma antica e la tradizione arturiana.

In questo senso immagina che l’ultimo imperatore romano, il tredicenne Romolo Augusto, invece di morire nel Castrum Lucullanum a Capri (l’odierno Castel dell’Ovo), venga liberato da un pugno di reduci della legione Nova Invicta e con essi inizi un viaggio fino al Vallo di Adriano in Britannia alla ricerca dell’ultima legione la dodicesima Drago.


Non è difficile immaginare che i resti o addirittura il solo ricordo delle legioni, da sempre depositarie dei valori di conquista e di civiltà, essenza stessa della romanità, avessero acquisito nel secolo del disfacimento dell’impero ad opera dei barbari una considerazione quasi mistica nell’immaginario popolare.

Quello strano gruppo di persone composto da un imperatore bambino, dal suo precettore il druido Meridius Ambrosinus (che nel film ha il volto di Ben Kingsley), dai legionari Aurelio, Vatreno e Batiato e dalla donna-guerriero Livia Prisca, in fuga verso la Britannia, braccati dai barbari di Odoacre, costituisce il mezzo della fecondazione del mondo anglosassone con i valori romani.

Il simbolo di questa continuità è la spada di Giulio Cesare, che Romolo ritrova nel castello di Capri e porta con sé in Britannia, la getterà via dopo la sanguinosa vittoria sui barbari, per segnare la fine della guerra. Quella spada si conficcherà nella roccia e della sua iscrizione incisa sulla lama “Cai. Iul. Caes. Ensis Caliburnus” (Spada calibica di Giulio Cesare) rimarranno leggibili solo alcune lettere “E S CALIBUR”, mentre Meridius Ambrosinus sarà ricordato come Merlinus.

La trama del libro ha un impianto epico-fantasioso, ma le critiche che sanzionano un epilogo della storia del tutto incoerente con lo sviluppo del romanzo sono ingenerose e semplicistiche.

Esse non colgono né le recenti scoperte storiche che collocano gli eventi della tavola rotonda proprio in quegli anni di fine dell’impero romano e di inizio del medioevo e non alcuni secoli dopo, come si era sempre pensato, né il messaggio di sostanziale unità e omogeneità della cultura europea che Manfredi propone.

L’intreccio di un romanzo infatti non è buono se è consueto, ma è buono se riesce a farci pensare.

Paolo Cianfoni

Links
http://it.wikipedia.org/wiki/Valerio_Massimo_Manfredi

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lunedì 5 novembre 2007

Libri, siti & Co. - La strada



Il premio Pulitzer 2007 è stato assegnato a “La strada” di Cormac McCarthy (2007, pg. 218, ed. Einaudi).

McCarthy catapulta il lettore alla fine del mondo, dove gli alberi e le foglie non sono “secchi”, ma “morti” e dove un padre e un figlio camminano tra la cenere di quel che resta del nostro pianeta. L’apocalisse è avvenuta qualche anno prima, ma McCarthy non ci spiega né il perché né il come il mondo si sia ridotto così, perché in fondo non ce n’è bisogno: è avvenuto e basta.


L’atmosfera in cui è immerso tutto il romanzo è naturalmente opprimente, ostile, lontanissima dal “nostro” mondo fatto di comodità e piccole gioie materiali, ma non è affatto irreale. Anzi è assolutamente ragionevole supporre che dopo la catastrofe (nucleare, ambientale, o chi lo sa ..) una volta finite le scorte di cibo, nelle nostre civilissime terre il furto, l’assassinio e il cannibalismo diventi pratica comune e che quest’ultimo si indirizzi in primo luogo verso i bambini sopravvissuti.

A captare l’attenzione del lettore non sono le situazioni raccapriccianti, che certamente non mancano, ma il rapporto padre – figlio. Quel rapporto è un mondo fatto di amore completamente immerso in un mondo terrificante.

E’ per questo che il padre ha il rimorso di aver parlato al figlio del mondo che è stato e cerca di non ricordagli mai sua madre, perché per suo figlio quelle cose possono solo farlo soffrire e non lo aiuteranno mai nella vita che deve affrontare.

Nel mondo che conosciamo pensare all’educazione e al futuro del proprio figlio significa preoccuparsi di mandarlo in buone scuole e svolgere al meglio il proprio compito di genitore con l’esempio di una vita “perbene” ispirata a valori di civiltà.

Nel mondo descritto da McCarthy, (un mondo allo stesso tempo lontanissimo e a un passo da noi), l’esempio che il padre è costretto a dare al figlio è quello di essere sempre pronto a uccidere chiunque si avvicini a lui e di non poter aiutare nessuno, adulto o bambino.

Il significato della parola “futuro” in mondo così è ben descritta dal fatto che quando il padre è costretto ad allontanarsi anche di pochi passi da suo figlio, non porta con sé la pistola, ma la lascia sempre al bambino, sperando che il figlio la usi per uccidersi in caso di pericolo.

Eppure McCarthy a poco a poco ci fa capire che proprio in mondo così, dove niente ha significato, l’unica cosa in cui credere sono proprio i valori di civiltà: nei dialoghi tra padre e figlio, fatti di frasi secche e terribili nella loro semplicità, il mondo è diviso in “buoni” e “cattivi”.
I “buoni” sono quelli come loro, che “non mangiano i bambini”. Questa divisione tra buoni e cattivi non ha niente di inadeguato o di infantile, sono concetti essenziali, che hanno la forza della più complessa filosofia che possiamo immaginare.

Un genitore normale nel nostro mondo può tranquillamente concepire di dare la propria vita per salvare quella di suo figlio, nel mondo del romanzo può tranquillamente concepire di uccidere il proprio figlio per non farlo sopravvivere a sé stesso. In quel mondo il più grande atto di fiducia nel futuro dell’uomo, che può fare un padre è quello di permettersi di morire lasciando solo suo figlio.

Un libro geniale, che sembra occuparsi di un mondo ipotetico, mentre invece parla solo e sempre di noi.

Paolo Cianfoni


Links
http://www.cormacmccarthy.com/
http://it.wikipedia.org/wiki/Cormac_McCarthy

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pubblicato su "L'Urlo" di Novembre 2007